Quando si parla dei maestri della fotografia del passato, tranne poche eccezioni, si fa riferimento ad un mondo prevalentemente maschile, retaggio di una cultura artistica dominata dall’uomo da sempre, per ragioni molteplici che sarebbe sciocco riassumere in poche parole o stigmatizzare superficialmente. Mi piace il fatto che in fotografia tutto questo sia semplicemente frutto di una visione falsata e non di una constatazione: se pensiamo solo al ‘900, le figure femminili che hanno avuto un’importanza cruciale sono tante, e alcune di loro in particolare spiccano non solo per la loro opera, ma per lo spirito indipendente col quale hanno affrontato la vita.
Ci sono insegnanti che possono rovinarti. Prima di accorgertene potresti diventare solo la pallida copia di quell’insegnante. Devi crescere da solo.
Berenice Abbott

Berenice Abbott negli anni ’20 e in un ritratto di Hank O’Neal pochi mesi prima della morte, nel 1991.
Berenice Abbott è la prima a venirmi in mente, innanzitutto per sue ambizioni altissime e il suo approccio alla fotografia scientifico, nonostante abbia mosso i primi passi nello studio parigino di un dadaista, il celebre Man Ray, che inizialmente voleva solo qualcuno che eseguisse i suoi ordini. Lei lo affianca appassionandosi, ma presto dimostra di avere una certa dose di talento, apre il suo studio e diviene la ritrattista della gente che conta.
E così Abbott pensa in grande, fin dall’inizio, e in totale autonomia: questo la porta ad ottenere nel 1935 un incarico eccezionale, quello di raccontare New York, dirigendo un gruppo di 12 persone in un’impresa di documentazione straordinaria. Ma il suo ruolo decisivo nella storia della fotografia americana in realtà comincia già quando acquista l’archivio di negativi di Eugéne Atget, portandolo con sé negli Stati Uniti da Parigi, consacrandolo come il padre dello stile documentario a livello internazionale, e come proprio personale riferimento. Lo ritrae lei stessa, poco prima della sua morte, nel 1927: quello che c’è tra di loro è una sorta di passaggio di testimone.
Quando la definiscono una “straight photographer” e una entusiasta della modernità e della tecnologia (Wikipedia), penso siano sciocchezze: innanzitutto la filosofia della fotografia “diretta” (quella associata ai nomi del celebre e fugace Gruppo F/64) non è sufficiente a raccontarla, anzi è un’indicazione fuorviante. Il suo percorso, totalmente indipendente, la vede a metà strada tra l’approccio documentaristico, in chiave architettonica e sociale (che condivide col collega e amico Walker Evans) e la ricerca formale, più vicina alla visione “qualitativa” della Straight photography, ma di certo non prevalente.
L’ambiziosissimo progetto di Abbott “Changing New York”, avviato nel 1935, ha infatti una natura ambivalente: se da una parte si avvia come un grande progetto artistico personale, che celebra la città in trasformazione attraverso molte immagini grandiose, rese con stile pulito e sintetico, e tanti scorci cittadini con vetrine di negozi in pieno stile Atget, dall’altra si apre ben presto, con il finanziamento del municipio e l’aiuto di vari collaboratori, ad una trasformazione in chiave strettamente documentaria volta alla pura conservazione.
In questo senso la visione di fondo di Abbott è di natura sociale, vede la fotografia come uno strumento di documentazione storica utile, e non disdegna una forte critica all’inumanità dell’ambiente urbano americano, da lei sempre messo a confronto con quello rurale in un’analisi del paesaggio e della società complessiva, portata avanti per anni con la collaborazione della critica d’arte Elizabeth McCausland, sua compagna per tutta la vita.
Dalla fine degli anni ’40 in poi comincerà invece un nuovo percorso fotografico rivolto alla scienza e ai fenomeni fisici: prima di ottenere riconoscimento e sostegno dal MIT nel 1958, studia da sola per circa vent’anni il modo di unire arte e scienza attraverso il solo mezzo che riteneva capace di fare questo, la fotografia. Produce migliaia di fotografie dedicate alla documentazione di fenomeni fisici riprodotti in studio ed esperimenti scientifici, fornendo anche materiale didattico per testi scolastici. Inventa strumenti per la fotografia come un cavalletto anti-distorsioni e una lampada telescopica, disegna e produce macchine fotografiche.
Berenice Abbott è una figura centrale per lo sviluppo della fotografia americana nel ‘900, complessa, sfaccettata, indipendente e impossibile da etichettare. La mia impressione è che non sia sufficientemente apprezzata a livello internazionale e nell’ambito degli studi sulla fotografia. È infatti difficile vedere sue monografie nelle librerie, e si vede nominata superficialmente nei libri storiografici.
Forse aveva ragione quando dichiarava “The world doesn’t like independent women, why, I don’t know, but I don’t care”.
Tutte le immagini qui pubblicate, fatta eccezione per l’immagine di copertina e i due ritratti di Abbott, sono tratte dall’Archivio ufficiale.
L’immagine di copertina è tratta dal MITMuseum
La citazione del titolo è la risposta che Abbott avrebbe dato ad un ufficiale del New Deal Project che osservando le sue foto di New York esclamò: “le brave ragazze non dovrebbero frequentare certi quartieri”.