Quali sono le tendenze comuni dell’arte contemporanea viste alla Biennale di Venezia 2015? Proverò a tracciarne alcune, senza voler essere esaustiva: più che altro un tentativo di trovare dei fili rossi in tanta confusione “creativa”. Al centro della mia attenzione soprattutto i Giardini con i padiglioni nazionali.

Uno degli interni del padiglione canadese dal titolo “Canadassimo”.
Accumulo/Caos
Un classico ormai, viene da lontano ma forse è veramente la tendenza dominante: ovunque si vedono oggetti di riciclo, assemblaggi, ambienti ricostruiti con maniacalità o per fedeltà all’originale (“Why Look at Animals? AGRIMIKÁ” di Maria Papadimitriou per la Grecia) o per generare maggiore realismo (“Canadassimo” di BGL art collective per il Canada), ma comunque con grande abbondanza di piccole cose, e talvolta con una certa allegria (anche se un po’ sinistra, come in quest’ultimo caso). Tale tendenza sicuramente rievoca il mondo urbano, regno del caos e dell’inutile, come ci ricorda un po’ tristemente anche il padiglione israeliano a cura di Tsibi Geva con il titolo “Archeology of the Present”: ciò che lasceremo ai posteri è una miriade di copertoni, serrande di plastica e finestre di alluminio anodizzato. Oppure si osserva la ricostruzione di una sorta di museo archeo-etnologico di fantasia, con una moltitudine di finti reperti tratti da un passato immaginario (Fiona Hall, “Wrong Way Time” nel Padiglione dell’Australia). O ancora, accumuli di bandiere-straccio, anche se ordinatamente disposti, nel padiglione della Serbia sulle “United Dead Nations” di Ivan Grubanov, con data e morte di paesi ormai estinti, quasi ed evocare l’inevitabile fine di ogni storia.

Una panoramica dell’installazione nel padiglione giapponese.
Diverso è il caso del Giappone (“The Key in the Hand” di Chiharu Shiota): c’è l’accumulo ma si tratta di un unico oggetto simbolico (la miriade di chiavi sospese in una grande ragnatela rossa), assorbito dall’insieme omogeneo e dalla comunicazione immediata. Un’esperienza onirica dal carattere simbolico ma non criptico. Ogni tanto ci vuole.
Pregi: meticolosità del lavoro, sensazione di “vissuto”
Difetti: confusione e mancanza di sintesi

L’interno del padiglione della Norvegia.
Ricerca di quiete/essenzialità
Un’altra caratteristica comune a molte opere è invece la ricostruzione di luoghi dominati da un senso di pace, spesso associata al ritorno alla natura (e in questo senso crea una sorta di opposto rispetto al caos della civiltà), come nel caso del padiglione francese (“Rêvolutions” di Céleste Boursier-Mougenot) con alberi flottanti e l’invito a “riposarsi”. Anche in quello norvegese (“Rapture” di Camille Norment), splendido anche solo per la magnifica architettura storica con alberi veri annessi, l’invito è ad abbandonarsi al suono dell’armonica ad acqua. L’essenzialità però può essere associata anche a tutt’altro genere di lavori e di messaggi, come nel giallo “créme anglais” del padiglione inglese (“I Scream Daddio” di Sarah Lucas, dominato da un’ironia forse volutamente un po’ ridicola ma insopportabilmente inutile), o nella purezza concettuale del padiglione danese (“Mothertongue” di Danh Vo), molto criptico e vagamente inquietante. O ancora due casi: quello ungherese (“Sustainable Identities” di Szilárd Cseke) dove sfere in movimento e un grande pallone “respirante” con cuore meccanico ci ricordano, almeno nelle intenzioni, le dinamiche sociali, economiche e ambientali; l’altro è il caso del padiglione della repubblica Ceca e Slovacca (“Apotheosis” di Jirí David), in cui in un bianco accecante osserviamo una immensa tela con messaggio bianco su bianco che cela, dietro di sé, un dipinto che possiamo vedere solo attraverso uno specchio. Ma qui l’essenzialità apparente dell’installazione (forse già un po’ tradita dalla solennità che trasmette) si scontrano con la complessità del significato così come viene espresso dal comunicato stampa: un sovrapporsi di metafore e densità filosofiche comprensibili solo agli esegeti. Un altro esempio ancora diverso ma improntato all’apparente semplicità di forme e colori è il padiglione svizzero, con l’installazione “Our Product” di Pamela Rosenkranz: un corridoio verde neon ci conduce ad una finestra dalla quale osserviamo una piscina color carne ribollente di materia organica. L’odore che dovremmo sentire è quello della pelle dei neonati, e il rumore dell’acqua ci avvolge, mentre leggiamo i dettagli sui contenuti batterici della sostanza che osserviamo “protetti” dal vetro. Il desiderio di andarsene è immediato: qui la ricerca affannosa di significati profondi attraverso elementi apparentemente semplici è travolta dall’effetto disgusto. Infine merita una menzione il caso del padiglione austriaco a cura di Heimo Zobernig: qui l’essenzialità è assoluta, in pratica la visita riguarda solo la rivisitazione architettonica dello stesso padiglione. Per il resto ci sono solo panchine dove sedersi.
Pregi: ricerca di purezza ed equilibrio estetico
Difetti: concettualità faticosa ed esasperata
Impegno civile
È una delle tendenze del nostro tempo, che a mio parere nel caso della Biennale è rappresentato al meglio dalla presenza di Walker Evans nella selezione ufficiale, una specie di effetto sorpresa quasi fuori contesto, con conseguenze devastanti per gli altri. Le sue piccole foto in bianco e nero parlano dirette senza filtri, ed è come tirare un sospiro di sollievo: non servono interpreti. L’approccio “sociale”, si direbbe “di denuncia”, è comune a moltissime opere e installazioni, anche all’Arsenale se ne vedono decine e decine (su tutte forse emerge il video di Steve McQueen dal titolo “Ashes”). Il padiglione tedesco (“Fabrik” di Metwaly / Rizk, Nicolai, Steyerl, Zielony) mostra in uno dei suoi ambienti una serie di fotografie di immigrati di origini africane sia isolate, sia così come sono state riprodotte sulle pagine di alcuni giornali, utilizzate per raccontare la cronaca dei nostri giorni: si tratta di una riflessione sull’informazione e sul mezzo fotografico. Ma il problema è rimanere impressi nella memoria, soprattutto quando l’obbiettivo è sensibilizzare le coscienze: il linguaggio dovrebbe essere più diretto e sintetico per raggiungere gli osservatori e centrare il segno. L’impressione è che solo con le buone intenzioni non si fanno le opere d’arte, e senza l’arte il messaggio è vuoto perchè non incide.
Pregi: evidenza a realtà sociali poco conosciute
Difetti: un po’ di poesia non guasterebbe…