La fotografia contribuisce oggi più di ieri all’urgente bisogno di comprendere la realtà, all’osservazione e alla testimonianza di un mondo che sfugge alla nostra comprensione: lo scatto che immobilizza sembra portare con sé un controvalore rispetto all’immagine in movimento, il suo potere di sintesi è la chiave del suo successo.
Il World Press Photo è il più celebre tra i concorsi fotografici, seleziona foto scattate da reporter di tutto il mondo e si distingue quindi per il taglio giornalistico: i premi sono assegnati sia a singole foto che a progetti, ma sono le prime a trovare larghissima diffusione attraverso le testate giornalistiche di tutto il mondo e a cascata nei social network. Gli scatti vengono consumati in brevissimo tempo da milioni di persone che li vedono, li condividono e li giudicano a sentenza già emessa.
Il pubblico è attratto dalla forte carica di pathos che esprimono: arrivano subito al cuore prima ancora che al cervello. La maggior parte delle foto selezionate raccontano di morte, sofferenza, di paura e solitudine, testimoniano scenari di guerra, abbandono e devastazione. Ma sembrano non bastare questi elementi per colpire il pubblico, forse perché consumiamo immagini violente da troppo tempo per essere facilmente impressionabili. Bisogna calamitare lo sguardo e catturarlo rapidamente, prima che il click del mouse ci porti altrove. Ed è lì che interviene il fotoritocco.
Gli scatti hanno spesso colori forti, acidi, ricordano l’estetica dei videogame; l’illuminazione è teatrale, precipita sul soggetto come il fascio di luce che Caravaggio cercava bucando il soffitto di casa. Spesso ci si imbatte in una estrema nitidezza, che comunica una ricerca di perfezione che rasenta l’iperrealismo. Insomma, possiamo individuare nel trattamento delle foto in postproduzione una sorta di linguaggio standard, una “maniera” diffusa, pittorica, finalizzata all’effetto “shock”, tale che osservatori esperti come Renata Ferri parlano di una visione “imposta” che non lascia spazio all’osservazione individuale e che allontana le immagini dall’idea originaria di documento, così come ci si aspetta nell’ambito del fotogiornalismo.
Chi opera il photo enhancing sa che la gestione della luce è tutto e che basta pochissimo per produrre piccole alterazioni che divengono tanto più sorprendenti quanto più il soggetto è potente. L’effetto speciale, a volte neanche particolarmente ricercato, è sufficiente per distinguersi dal mare di immagini comuni che ci scorrono davanti agli occhi: in fondo sembra affondare le radici in un disperato bisogno di attenzione. Il punto è che tutto questo funziona, ma per un istante. Il momento dopo siamo già catturati da una nuova, scioccante istantanea che nuovamente ci incuriosisce. Insomma, quanto dura l’osservazione? Quanto siamo capaci di leggere le immagini e interpretarle a modo nostro? Quanto siamo assuefatti ad emozioni preconfezionate?
Io credo che riflessioni di questo tipo non riguardino solo il fotogiornalismo e l’aspettativa di “verità” che un po’ ingenuamente associamo ad esso. Ciò che emerge è che l’utilizzo massiccio e diffuso del fotoritocco digitale si è uniformato alla moda dell’esasperazione e ha già cambiato il nostro modo di osservare la fotografia, rendendo sempre più difficile la comprensione e la divulgazione (evidentemente anche a livello degli esperti e degli “addetti”) di uno linguaggio più dosato, più riflessivo, magari meno adatto al consumo vorace indotto da internet, ma forse più duraturo.
Mi chiedo se il ruolo di concorsi fotografici così influenti non possa essere anche quello di proporre un gusto più ricercato e meno kitsch, sottratto alle logiche della conquista facile dell’occhio distratto. Che non imponga limiti talvolta ridicoli e incoerenti al fotoritocco, ma piuttosto che ne mostri le potenzialità aldilà degli effetti preconfezionati.