Ho fotografato per la prima volta con la pellicola, inevitabilmente, perché la mia generazione viene da quella storia, ma ho cominciato a scattare consapevolmente con il digitale, e questo mi ha portato a utilizzare lo strumento con tutti i vantaggi che conosciamo: immediatezza del risultato, libertà di scattare senza limiti, facilità di disporre delle proprie immagini e di declinarle nelle infinite possibilità del fotoritocco.
Questo sembrava poter offrire tutto, almeno all’inizio. Si comincia con una fotocamera entry level, poi si passa ad una reflex vera e propria, si sperimentano gli obbiettivi, e la voglia di comunicare sembra vincere su tutto. Non importa se l’hard disk si riempie di immagini consumate nel giro di pochi minuti e poi dimenticate, l’importante è il piacere di produrre qualcosa di proprio, indipendentemente dalla destinazione delle foto. Poi se qualcuno che stimi ti dice che sei bravo, magari cominci pure a pensare che forse non comunichi qualcosa solo a te stesso, ma anche agli altri.
Ma gli anni sono trascorsi da quella prima fase, e dopo aver acquisito un po’ di sicurezza, una certa consuetudine con la fotocamera e con le tecniche di post-produzione, mi sono accorta che le mie foto non mi davano più quel piacere che cercavo, nello scatto e nel risultato. Questo più o meno mentre riscoprivo la mia prima fotocamera, una Polaroid che portavo con me alle gite scolastiche delle elementari, e che grazie alla reintroduzione delle cartucce della Impossible mi è stato possibile sperimentare nuovamente. Credo sia stato proprio in quel momento che ho provato un gusto per la fotografia tutto nuovo, inedito, e inconsapevolmente ho girato la testa verso il passato alla ricerca di qualcosa che mi ispirasse. Come ho sempre fatto, d’altra parte, ho cercato nell’arte di ieri la chiave per la creatività di oggi.

Libri sul letto, 2010. Scattata con la mia vecchia Polaroid 635cl e la cartuccia Impossible px600ss in fase di sperimentazione
La Polaroid mi ha restituito il gusto per l’immediatezza e l’imprevedibilità dello scattare con poco controllo ma più attenzione al soggetto, un piacere tutto diverso rispetto all’incertezza provocata dall’infinità di opzioni e modalità offerte dalla reflex, per non parlare di quel mare aperto che è il fotoritocco. Insomma, lo scatto produce una fotografia vera e propria e basta. Niente negativo, niente riproduzione, niente ritocco.
Da un estremo a un altro, si potrebbe sintetizzare; ma ciò che ho cercato da quel momento era qualcosa di diverso, un mezzo adatto alle mie esigenze, non un mezzo rispetto al quale sentirmi persa o, al contrario, troppo vincolata. La questione non è tecnologica, ma riguarda il linguaggio, perché i mezzi ci permettono di comunicare, ma ciascuno declina il messaggio in modo differente.
Per questo tutti i mezzi sono validi, anche un magico pezzo di plastica come la Holga.

Berlino, Billy Wilder’s, dicembre 2010
A dicembre del 2010 ho scattato con la mia prima “medio formato”, proprio la Holga, una serie che ancora considero le mie prime foto veramente personali.
Lo scenario era straordinario: una Berlino letteralmente congelata e bianca, candida. Giravamo per la città sopportando i -13 grazie alla voglia di scoprire e fotografare. Mi fermavo a scattare solo quando il soggetto mi ispirava davvero, e la Holga ha solo due tempi di scatto, uno più veloce e uno più lento, oltre alla posa B (a tempo indeterminato). E poi è dannatamente leggera, il che vuol dire che le foto vengono quasi sicuramente mosse senza un appoggio (come nell’esempio del bancone del Billy Wilder’s). Insomma, un livello di controllo minimo. Ma è quell’incertezza assoluta ad avermi affascinato e ad avermi permesso di ottenere delle foto che per me sono un racconto autentico e ispirato di quell’atmosfera. Ho scattato anche in digitale, ma continuo a considerare queste le foto più simili ai miei ricordi.

Berlino, Neve alla Neue Nationalgalerie, 2010

Berlino, il muro al Bundestag, 2010
Forse queste sono le domande che dovremmo porci quando scattiamo, rispetto al mezzo e al linguaggio che scegliamo di usare, più o meno consapevolmente, e rispetto al contesto in cui ci troviamo: cosa racconteranno le nostre foto? cosa potranno dire di diverso dalla parole? come potranno rievocare quegli attimi?
Oggi mi sono resa conto che scegliendo lo strumento scelgo già un linguaggio, e che non esiste un mezzo uguale all’altro. Nessuno, neanche il digitale, può riprodurre gli altri. Prima di sceglierne uno devo però fare lo sforzo di immaginare cosa potrò comunicare.
Sicuramente non potrei più tornare indietro ad un mezzo unico, magari estremamente versatile, ma falsamente universale: pensare di poter avere tutto qualche volta può lasciarti a mani vuote.