Realtà o finzione? Polemiche sul World Press Photo

storie di fotografia e arte

Se la fotografia non può mentire, i mentitori possono fotografare

Lewis Wickes Fine, Fotografia sociale. Come la macchina fotografica può contribuire a migliorare la società, 1909

Ancora il World Press Photo, come ogni anno, ci offre un momento di riflessione sul linguaggio e il significato della fotografia e in modo particolare del fotogiornalismo. In questi giorni si dibatte sulla questione aperta dall’esclusione, a seguito di vivaci proteste e polemiche, del reportage di Giovanni Troilo (“The dark heart of Europe“) che aveva guadagnato il primo premio nella sezione Contemporary Issues.

L’autore è un fotografo che lavora prevalentemente nell’ambito pubblicitario e il suo reportage, come si può chiaramente vedere in quasi la totalità degli scatti, è frutto di un lavoro di dichiarata costruzione dell’immagine. È palesemente un lavoro artistico e non strettamente giornalistico, se vogliamo accettare ancora l’idea che tra le due cose ci siano delle distinzioni e che la fotografia non sia solo un grande magma senza distinzioni, come invece sembra suggerire quanto scritto da Christian Caujolle su Internazionale.

È interessante notare che il progetto è stato escluso non per le ragioni rivendicate con passione da Zizola in un suo articolo di risposta a Caujolle, ma per un vizio di forma, cioè uno degli scatti riporterebbe una didascalia non veritiera: il sindaco di Charleroi (la cittadina belga al centro del lavoro di Troilo) ha protestato perché una delle foto non è stata scattata sul posto ma altrove. In realtà il sindaco non gradiva l’immagine che gli scatti suggeriscono della sua città e ha trovato il modo di contestare formalmente la premiazione e quindi la ribalta data al reportage. Ha ottenuto ciò che voleva perchè il WPP ha verificato che la foto è stata effettivamente scattata nella periferia di Bruxelles, il che viola apertamente una delle regole del concorso, la veridicità di quanto affermato dagli autori.

Da qui è nata però la polemica che ci interessa, che come accade spesso scaturisce da strane dinamiche e motivazioni interessate ad ottenere altri scopi rispetto a quanto invece viene dibattuto, che è una questione molto più grande: è condivisibile che il più grande premio mondiale di fotogiornalismo ammetta e addirittura incoraggi questo tipo di reportage?

Per i sostenitori della fotografia giornalistica il fotografo racconta, e spesso svela e porta alla luce le contraddizioni, i contrasti e le infinite problematiche irrisolte del nostro mondo attraverso la testimonianza “per immagini”. In questo senso però non può fare a meno dell’onestà e della trasparenza, almeno nelle intenzioni dichiarate, come sostiene Zizola, che afferma: Se non crediamo più al patto con il reale della fotografia documentaria, come possiamo affermare che le foto dei campi di concentramento nazisti arrivate fino a noi non sono solo il reperto che perpetua la memoria dell’orrore dell’Olocausto, ma anche la prova che inchioda gli assassini?

Per coloro che contestano la veridicità presunta affermando che sostanzialmente questa non può esistere, nulla è ciò che sembra e c’è sempre un punto di vista che prevale sulla realtà. Scrive Caujolle: “dobbiamo ricordare che, se da un punto di vista deontologico per un giornalista è vietato mentire, la fotografia è incapace di qualunque verità oggettiva. È tutta una questione di scelta di inquadrature, di estetica, di costruzione di briciole di realtà scomposte, ricomposte e messe insieme.”

Insomma, se torniamo alle foto dei campi di concentramento, queste non sarebbero veritiere, perché la verità non esiste e soprattutto non c’è modo di restituirla con la fotografia. Si può scrivere, si può raccontare, ma non si può fotografare. Trovo curiosa questa certezza assoluta e questo genere di relativismo che semplifica tutto riducendo all’inutilità qualunque discussione di carattere deontologico. In questo senso non dovrebbero esistere regole per il concorso, e forse non dovrebbe esistere proprio il concetto di fotogiornalismo, perché in fondo se tutto è uguale, cioè se tutto appartiene alla sfera dell’interpretazione arbitraria, perché ci affidiamo ai reportage fotografici per poter osservare con i nostri occhi i fatti, le storie e i volti del mondo reale? Dovrebbe tutto appartenere all’invenzione e alla creatività, come in effetti lavora Troilo, che ha pensato di raccontare com’è cambiata Charleroi nel corso degli anni con un lavoro di ricostruzione di situazioni particolari più vicino al cinema o all’opera di fotografi come Gregory Crewdson, che al reportage tradizionalmente inteso.

Lo stesso Caujolle – photo editor – ha infatti evocato, coerentemente al suo ragionamento, la chiusura del WWP, per mancanza di credibilità e di regole certe: si potrebbe creare una categoria apposita di “interpretazione del reale” ma poi, in fondo, non è tutta sempre e comunque un’interpretazione?

Nel dibattito è intervenuta anche Renata Ferri che contesta le conclusioni del suo collega sostenendo che senz’altro andrebbe rivisto il regolamento ma che il premio resta un’occasione importante e insostituibile di divulgazione e racconto attraverso il linguaggio immediato dell’immagine fotografica; che “ci sono bambini in ogni angolo del mondo che imparano, ascoltando le loro maestre mentre guardano le immagini col naso all’insù“.

Dunque la questione è in realtà per certi versi antica e per altri totalmente inedita: se la fotografia possa o meno essere veritiera è un problema che sorgeva già alle soglie del secolo scorso, dopo un’epoca (quella ottocentesca) in cui al contrario si disprezzava proprio per il suo brutto vizio di riprodurre meccanicamente la realtà (basta pensare a Baudelaire). Oggi siamo nuovamente qui a discuterne l’autenticità rispetto al reale, dimenticandoci della natura fondamentalmente ambigua della fotografia, e in questo senso ogni rivendicazione di assoluta autenticità è un assioma di natura ideologica.

Forse sarebbe più realistico accettare il compromesso e imparare tutti ad essere più trasparenti e onesti possibile: Troilo ha proposto un “prodotto” che non è un reportage, ma un lavoro di studio. Perché dovrebbe essere importante il luogo dov’è scattata la foto ma non il fatto che molte scene sono costruite artificialmente? Conta qualcosa se i soggetti non sono veramente chi si dice che siano? Alla fine è stato il WPP ad essere disonesto: nel presentare il lavoro è stata omessa la didascalia in cui si dichiarava apertamente che uno degli scatti era frutto di una costruzione: coscienza sporca? Ammetti un reportage che non è un reportage e non vuoi dichiararlo?

Non si potrebbe più semplicemente trovare una definizione per questo genere di progetti e ammetterli dichiarandone la natura? Se accettiamo il fatto – e ormai da anni sembra sia accettato aldilà delle rivendicazioni appassionate ma fuori tempo di molti fotografi come Zizola – che il prodotto giornalistico sia tale anche laddove si realizza una ricostruzione artificiale della realtà come in questo caso, cioè che la macchina non riprende un fatto che accade realmente davanti agli occhi del fotografo ma è il fotografo a costruire la scena, perché discutiamo di verità e finzione? È dichiaratamente una finzione, ma ha uno scopo narrativo incentrato su fatti della realtà. In fondo i festival fotografici di tutto il mondo non sono invasi dal fotogiornalismo? Perché allora la fotografia narrativa/artistica non dovrebbe invadere il mondo della stampa, cosa che già avviene, non dichiaratamente, da anni?

La questione se la fotografia riproduca o meno la realtà secondo me produce solo un infinito dibattito fine a sé stesso. Se impariamo a dichiarare ciò che intendiamo comunicare e come, tutto sarà più semplice. A questo servirebbe, da contraltare, un pubblico più maturo ed educato a leggere le immagini, invece di una massa di consumatori ignari e contenti.

 

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